Un altro sabato pomeriggio rubato al trionfo.
Simone odiava le partite di calcio sia perché giocava raramente, sia perché aveva tanti altri passatempi che reclamavano la sua attenzione. Le figurine da attaccare sull’album dei Cavalieri dello Zodiaco, il programma di fauna africana appena dopo i cartoni animati, e il circuito creato con i cartoni sfondati e i pezzi di legno recuperati dal deposito sotto il barbecue di suo padre, dove poteva testare la macchina telecomandata regalatagli per Natale. Riusciva ad immaginarsi come il pilota, ad immaginare le altre macchine avversarie sfrecciare e tentare di sorpassarlo a pochi metri dal traguardo; riusciva a vedere la folla festante complimentarsi e incoronarlo per il primo posto e il nuovo record della pista. L’aveva nominata il serpentone di via Rubicozzi e lui ne era l’unico ed imitabile campione.
Non odiava il calcio, era il calcio ad odiare in parte lui: non si sentiva a suo agio con il pallone tra i piedi. Nonostante questo, correre su e giù per il campo, far perdere la palla all’avversario intralciandogli il passo, e saltare in mezzo all’area di rigore per tentare un’incornata al volo erano attività che non trovava affatto spiacevoli.
L’aria era fredda, la squadra emetteva rivoli di condensa dalla bocca. Correva compatta a coppie su e giù nella metà campo. L’allenatore Giancarlo, un uomo pelato con la testa a forma di pallone da rugby, gli occhi piccoli e scuri che incutevano timore e richiedevano rispetto, osservava il riscaldamento dei suoi dalla linea laterale, passeggiando davanti alla panchina di legno e al tettuccio plastificato. Il sole era alto ma piccolo e timido. Simone pensava al serpentone, alle modifiche che avrebbe fatto se fosse tornato a casa con ancora un rivolo di luce invernale, e intanto sgambettava. Le sue gambe erano magre, stuzzicadenti se confrontate a quelle del suo compagno di classe, il capitano e capocannoniere Mirco Gaston.
Erano seduti nello spogliatoio, dopo un allenamento. Mirco, sul cui petto erano già disegnate le linee della muscolatura, aveva annunciato: “Guardate qua. Il quadricipite”. Simone da una parte, Tommaso -centrocampista destro- dall’altra, avevano ammirato quella massa talmente spessa da ricordare un prosciutto, così definita da imitare i solchi di una montagna. Mirco aveva rilassato e aveva teso il muscolo tre o quattro volte, poi, sorridendo d’orgoglio, aveva detto: “…Voi non ce la fate mica a contrarre così. Ve lo garantisco”. La sera stessa, Simone, prima di infilarsi i pantaloni del pigiama, aveva provato a constatare i risultati dei suoi sforzi concentrati. La coscia, bianca come la neve, aveva mostrato degli impercettibili spasmi ma la differenza tra la tensione e il rilassamento era pressoché assente. Era ben lontano dallo stantuffo tutto potenza di Mirco, aveva pensato Simone, senza rammaricarsi troppo, con una serena dose di onestà intellettuale.
La partita cominciò in orario, il fischio deciso dell’arbitro risuonò in un eco accompagnato dai deboli applausi del pubblico sparso sul prato che attorniava il campo: gli spalti erano rimasti un’eterna promessa mai tradita e mai mantenuta della società. Simone era seduto in panchina, insieme a Francesco e Riccardo, la fedele compagnia pronta ad esultare alle prodezze della squadra titolare. Giancarlo teneva le braccia legate alla schiena, borbottava, alzava la voce, e, quando l’attenzione richiedeva il suo massimo, le braccia si alzavano e danzavano il ballo delle indicazioni.
Successe, a una decina di minuti dal primo goal della squadra avversaria, che il difensore centrale, Ludovico Armanasi, dopo un contrasto in area, uscì per un dolore invadente al polpaccio, e quindi Giancarlo fissò le tre riserve. Preso da una strana voglia di sperimentare, nominò deciso Simone al posto di Riccardo (Francesco rimaneva la perenne ultima spiaggia). “Voglio che non fai passare nessuno” gli sussurrò l’allenatore, una mano poggiata alla schiena, mentre Simone, in piedi, saltellava sul posto, virando i pensieri sulla partita e le sue dinamiche.
All’inizio del secondo tempo, Simone non aveva ancora fatto grandi errori. Aveva difeso come sapeva, non si era fatto fregare dal nove che aveva cercato di superarlo a sinistra dopo una serie di finte con il corpo. Era scivolato giusto in tempo per evitare un cross pericoloso, masticando un po’ quel sapore onnipresente di fango ed erba, e aveva svettato di testa un paio di calci d’angolo. Quando si ritrovava la palla tra i piedi, faceva una cosa e una soltanto: la calciava lontano, verso la metà campo, dove sperava che Mirco facesse i soliti miracoli.
Il goal del pareggio arrivò a mezz’ora dalla fine. Mirco si trovò con il pallone appena fuori dall’angolo dell’area avversaria, si accentrò e lo sparò a rientrare con il sinistro, il suo piede debole. Il tirò non fu granché ma, sfiorando la spalla di uno degli avversari, aggiustò la traiettoria e si insaccò a fil di palo. Mirco corse verso il centro del campo con la maglia levata, onorato dai compagni e dagli applausi dei genitori, esattamente come Simone immaginava se stesso nella proiezione di pilota vincitore del serpentone di via Rubicozzi. Non sapeva che un po’ di gloria, a qualche minuto dal recupero, sarebbe toccata pure a lui.
Durante un attacco confuso, pieno di rimpalli e lisci involontari, la palla sbucò a sinistra dell’area piccola come uno schizzo, e Simone era lì, pronto, il portiere ancora per terra nella mischia che si era creata, e allora bastò colpirla di testa, senza saltare, un movimento minimo in avanti del capo, come aveva imparato a fare in situazioni ben più complicate, e la palla si accoccolò sulla rete giusto a metà altezza nello spazio centrale.
Due a uno!
Simone non era abituato alle luci della ribalta, non sapeva bene come comportarsi, avrebbe voluto correre, saltare, urlare al mondo: “Eccomi qua, il vostro Salvatore!” ma si accontentò di un mezzo sorriso, un pugno alto mostrato ai compagni e al padre, il cuore gonfio di orgoglio alle parole di Giancarlo “Bravo Simone!” e tornò, addirittura tenendo la testa bassa, alla sua posizione di difensore centrale nella propria metà del campo.
Vinsero, e lunedì a scuola i compagni e le compagne, fuori dal giro del calcio e allo stesso tempo affascinati dai risultati della squadra, pretesero i riassunti succosi della partita. Mirco prese parola, partì dal goal della vittoria di Simone. “Ha tirato questa incornata, e il portiere non è mica riuscito a fare niente!”. Gli occhi si rivolsero ammirati a Simone. “Ma no…”, disse lui rosso in viso, “…Il portiere era già per terra. E poi è più la palla che mi è arrivata in testa, del contrario”. Gli occhi spensero il loro luccichio, tornarono a Mirco. “Il mio primo goal è stato un tiro p-e-r-f-e-t-t-o-! Un centimetro di rotazione in meno e prendevo il palo…E l’ho tirato di sinistro!”.
“Ma dall’angolo?”
“Dall’angolo, giuro!”
“Tipo il goal di Sheva?”
“L’ho cercato di più.”
“Quanto è bravo” si sentì sussurrare. Simone era un po’ confuso; era abbastanza sicuro di aver visto la deviazione. Non ne aveva parlato con i suoi compagni di squadra, ma dava per scontato fosse successo. Si sbagliava? Aveva visto male? No. Riusciva a scorrere la scena nella memoria, il tiro, il tocco dell’avversario, il numero quattro con i capelli biondi dritti sulla fronte e la stazza da toro…Mirco stava mentendo? O non aveva visto lui bene come erano andate le cose?
Quel pomeriggio, prima di mettersi a guidare la macchina telecomandata, si sedette sul letto con addosso il solo abbinamento mutande e canottiera. Tese il muscolo della coscia magra. Lo studiò, scavando in quello spazio tra i suoi occhi e il suo cuore in cerca di una riposta sincera alla domanda: sembra davvero così debole?