1.
Avevo raggiunto i dieci anni?
Il campo di calcio era lontano dal centro cittadino, sembrava ficcato dentro una foresta di timidi alberi. L’odore era il solito; l’allenatore fece la lista dei titolari e, eccezionalmente, sentii risuonare il mio nome. Il capitano mi tirò una pacca sulla spalla. Ero il più piccolo, forse non di statura ma sicuramente di età, e avevo bisogno di supporto. Mi sentivo sicuro sul mio lato destro del campo, in difesa. Guardavo le squadre posizionate, gli occhi dell’arbitro fissi sull’orologio. Fischiò, le paure scivolarono dalle mie gambe sul terreno come un liquido. Tanto–così si diceva- era solo un’amichevole.
L’allenatore avversario aveva un piumino marrone a rombi, un indumento che veleggiava disinteressato tra il rozzo e il semplice, e sulla testa teneva un capellino con il frontino. Sembrava nervoso e lo sembravano anche i suoi pupilli. La partita si rivelò tesa fin da subito. Contrasti duri, lamentele scandalizzate all’arbitro. Fece finta di niente, continuai a difendere come meglio riuscivo. Intervenni in scivolata su uno degli attaccanti, mi ritrovai la palla tra i piedi e la calciai avanti. L’avversario mi squadrò, aveva il mento come un’incudine e i riccioli in testa gli davano un che di scultoreo. Sorrise e mi disse: “Se lo fai ancora, ti ammazzo”. La prima sensazione fu di paura. Era più alto, il torace spesso. Mi feci coraggio, dovevo rispondere a tono. “Che cazzo ho fatto?”. “Se lo rifai ti ammazzo”. Sorrise ancora. “Vaffanculo” dissi. Intanto il gioco si era di nuovo fermato per un brutto fallo. Le panchine si stavano azzannando. Avevo una miccia accesa dentro il petto. L’azione successiva, la palla fece in tempo a sfiorargli il piede che arrivai dalla sinistra a spazzare via ogni pericolo. Non riuscii a girarmi e sorridergli che lui puntò il mio ginocchio con il suo. Sentii un dolore sordo e la gamba cedere. Urlai, chiusi gli occhi. “Grida femminuccia!”. L’umiliazione delle sue parole si mischiò all’odore rancido del terreno. Sentii le voci dei miei compagni, quelle della squadra avversaria. Il dolore, come era salito in un impeto, si era dileguato. Aprii gli occhi. Il mio allenatore e l’accompagnatore mi aiutarono ad alzarmi. Sentii altre pacche sulla schiena. I miei occhi cercarono l’attentatore. Apriva la bocca come un predatore ma non ascoltavo le parole. L’odio, la rabbia, mi resero sordo e muto.
2.
La serata era stata piacevole, mangiammo crostini e pizzette e bevemmo in abbondanza. Marianna festeggiava la sua laurea in comunicazione. Eravamo sotto il portico di casa sua. Il giardino era in penombra, portava presagi di una natura docile e ben curata. Il discorso lo continuò Riccardo, legandosi al racconto del piccolo dispetto che aveva fatto un compagno di classe al fratellino di Rosa, la migliore amica di Marianna. “Sono cose che hanno vissuto tutti, dai su. Poi passano”. “Ma non sai quanto ci è rimasto male!” sottolineò Rosa, e poi bevve il fondo del bicchiere bagnato di birra. “Lo immagino, sì”. Riccardo stese un braccio lungo il tavolo per recuperare i resti di un tramezzino. Indossava un cappotto blu leggero, e i capelli avevano una leggera curvatura sulla destra. Come sempre, sembrava sicuro di quel che diceva. “Guarda che può lasciare cicatrici” ammise Marianna, e le fece eco Federico, garantendo che a lui, quando non aveva ancora compiuto cinque anni, due ragazzi del quartiere avevano sequestrato la bicicletta e la cosa, a ripensarci, ancora lo turbava. “Ecco che iniziano le confessioni. Per forza. Te, Rob, quale tragedia?”. La domanda mi fece tornare in mente la partita di quasi quindici anni prima, l’ingenua –per quanto possa essere possibile- minaccia di morte. È capitato, una partita di calcio. Direi che l’ho superata”. Risi e anche gli altri risero. “Diresti qualcosa a quel bambino, oggi?”. “Intendi al bambino che ero o allo stronzo che ha fatto il fenomeno?”. “Allo stronzo”. Ci pensai. “Forse…”. Era calato un buon silenzio, l’aria aveva una consistenza tesa da grande inizio di discussione. “…Non lo so, forse di prendersela con qualcuno di più grande. Facile, con i più piccoli”. “Beh, è la caratteristica del bullismo” disse Rosa, forte della preparazione di un singolo esame di psicologia adolescenziale superato con ventiquattro.
3.
“…Sembra proprio il candidato ideale”.
Sorrisero non come umani ma come villain di un fumetto, gioiosi più della loro scelta che della mia preparazione. Fu un’espressione che invidiai e a cui in cuor mio aspiravo. L’assunzione era questione di scontata burocrazia. Finalmente, dopo anni di dedizione: il ruolo di capo ufficio. Chiamai la mia ragazza Sofia e gli amici, avvisai pure mio fratello e i miei.
Venni convocato due giorni dopo, dovevo visitare la sede della nuova azienda. I magazzini erano divisi in due enormi paia di capannoni bianchi quanto le nuvole, uniti da una tettoia in tela; lì si trovavano le entrate dei dipendenti. Le saracinesche per i camion erano tutte abbassate. Il sole rendeva l’asfalto rovente. Feci un giro nella saletta d’attesa, poi entrai nello vasto spazio di muletti e scaffalature, di uomini in movimento e odore di plastica lavorata. Il personale si fiondava a destra e a sinistra. Venni presentato al capo magazzino, un uomo pelato e dall’occhio fiero, poi strinsi la mano ai due operai definiti più in gamba. La verità? Lo riconobbi. Mi era rimasta in testa la faccia da praticamente venticinque anni. Si era gonfiata sotto il mento e alle gote, e i capelli erano arretrati, centralmente un ciuffo rimaneva come baluardo. Era lui, senza dubbio, ma non aveva la stessa espressione con cui ci eravamo lasciati. Sembrava teso, il sorriso accennato cercava consenso e la testa bassa raffigurava una bona dose di rispetto. Feci finta di niente, scambiai qualche battuta, restai concentrato sulle dinamiche di giornata, sui vari aspetti di un lavoro che dovevo imparare quasi da zero.
4.
Dopo tre mesi, iniziai a muovermi con destrezza, lucidità, una dose di fatica e concentrazione minore. In quel periodo, finalmente entrato nelle grazie dei superiori, soprattutto di Andrea Rughini, il dirigente del reparto, riposi le attenzioni sui colleghi e gli operai, eterni figli prediletti della disuguaglianza sociale. Si chiamava Enrico Stecca; fino ad allora per me era stato il numero 9, lo stronzo con il numero 9. Aveva una moglie e un figlio di cinque anni, e sembrava aver perso tutta quell’aggressività che in tenera età gli apparteneva. Addirittura lo avrei definito placido, un gran lavoratore e senza alcuna voglia di rivalsa verso i superiori. Se mi avessero chiesto di proiettare la stessa persona, lo avrei descritto come un gretto mezzo delinquente, con il vizio per le osterie di paese e qualche tatuaggio da galera come un’aquila o una rosa sul deltoide, una sigaretta accesa e perenne tra le labbra. Non fumava neanche, mi assicurò che aveva chiuso qualche anno prima dopo la morte del padre per un tumore ai polmoni. Era proprio vero, le persone cambiano. O crescono. Passano le crisi infantili e quelle adolescenziali, e poi, eccolo lì, un uomo fatto e finito e rispettabile. Simili in tutto e per tutto al sottoscritto. Carnefice e vittima sotto lo stesso tetto, impegnati nella stessa sfida di aumentare i giri del conto in banca.
Mi venne voglia di dirglielo durante la cena di Natale. Ormai era il mio quarto anno lì e avevo una certa confidenza. Volevo confessargli, ovviamente, di quell’incontro bellicoso quando militavamo fieri nelle file dei Pulcini. Si era allestito una tavolata lunghissima in mezzo al secondo magazzino, il catering si era disposto vicino alla porta degli spogliatoi. C’era anche un albero di Natale e delle luminarie lungo i primi scaffali. Prima dell’inizio della tombola, ci ritrovammo vicini di posto. Ero brillo: il vino durante l’aperitivo e la cena aveva fatto un buon lavoro.
“Ma tu lo sai…”.
Andrea mi guardò, gli occhi erano così in pace con qualunque cosa stessero guardando che decisi di lasciar stare. L’immagine, catapultatami nella mente senza bussare, del bambino ad inveire “…Ti ammazzo” smorzò la leggerezza dell’intenzione. Il ricordo sarebbe morto nei meandri spinosi dell’infanzia e delle sue regole. “…Che adesso vi fotto tutti i premi, dall’ambo alla tombola” conclusi.
5.
Le cose si inclinarono a metà di tre anni fa. Il mercato degli interni era cambiato e il nostro gruppo, forse per pigrizia, forse per troppa fiducia in sé stessi, forse per entrambi, non volle stare al passo. Sicuro della propria offerta, cieco degli ordini in picchiata libera e del giro di camion man mano più rado, cominciò una fase di risparmio e di licenziamenti. Cercai di mantenere la mia squadra e di garantire anche per gli operai che si muovevano al di sotto delle direttive d’ufficio. Mi consideravo un bravo capo e un brav’uomo.
Quando venni a sapere che la convocazione, quel giorno, arrivava direttamente dalla segretaria del Rughini, mi si informicolarono le gambe. Feci un respiro profondo e, come in uno di quei film ambientati a Wall Street, mi allentai la cravatta. Entro fine giornata avrei potuto essere disoccupato.
Il suo ufficio era al secondo piano dello stabile dedicato. Odorava di limone…o comunque di agrumi. Aveva un bianco luminoso ammassato alle pareti e alla scrivania e al pavimento. La vetrata dava sui campi di grano sterminati della zona, simbolo di una vecchia operosità e testimoni silenti della nuova. Rughini aveva la sua folta chioma di capelli bianchi tirata indietro e ordinata dal gel. “Prima di tutto vorrei congratularmi” disse. Anche le rughe che correvano lungo il viso sembravano curate e quasi scelte nella loro disposizione. Mi fissò, sicuro. “Negli ultimi anni ha svolto un lavoro di indiscutibile valore. Per quello vorrei comunicarle che è stato scelto dal comitato per rientrare nel rimpasto in programma. Verremo assorbiti dalla Rascom. Ne era conoscenza?”. Avevo sentito qualche voce, certo, ma giravano sempre troppi nomi per darne un peso effettivo. Si dilungò su una serie di congetture sul processo di acquisizione, poi arrivò la condanna, appena dopo la benedizione. “Dovrà licenziare la squadra di operai e parte dell’ufficio. Se la sente?”. Non era una domanda, ma un’affermazione travestita da educazione. Avrei potuto puntare i piedi, insistere, cercare un compromesso, avrei potuto aprire la bocca e far uscire qualcosa di più eroico di “Non ci saranno problemi”. La verità era che desideravo quell’odore, quella scrivania bianca come il sole, e la stessa cura delle rughe, il giorno in cui mi sarebbero uscite così profonde. Ci stringemmo la mano come alleati.
6.
Quando toccò ad Enrico, avevo già liquidato metà ufficio e tre operai. Lo presi in disparte a fine giornata, come avevo fatto con gli altri. Lo portai nella saletta riunioni al piano terra, sul fianco di uno dei due capannoni. Teneva gli occhi bassi, le braccia unite sopra il piano nero del tavolo, come in una sorta di preghiera: aveva già capito. Non pianse, l’orgoglio non glielo permetteva, ma lasciò fluire la disperazione nei silenzi di resa. Mentre gli spiegavo come stavano le cose, con annessi i dispiaceri dell’azienda, mi guardò quattro volte, annuendo. Ci salutammo con una veloce stretta di mano, un “In bocca al lupo” onesto e non entusiasta.
Non mi faceva piacere dare il ben servito, ma, purtroppo, era una questione di dovere. E, se devo guardare alle mie ambizioni, anche di volere, certo.
Tornando a casa in macchina mi domandai se Enrico, a guardarmi parlare con tanta pacatezza del suo presente e del suo burrascoso futuro, non avesse visto le stesse fauci che avevo visto io in quella partita ormai trent’anni prima. Di certo lui non aveva negli occhi odio o rabbia, o così mi era parso…Ero ancora un brav’uomo?