Parlammo per la prima volta durante una pausa tra una lezione e l’altra. Così accadeva di conoscersi. Una ragazza saluta un amico e quell’amico è il compagno con cui sei sceso a fare la coda per il caffè alle macchinette. Avevamo tutti e tre i bicchieri di plastica sulla mano destra e tra l’indice e il medio -sempre della mano destra- una sigaretta accesa. Lei se le girava, l’odore a salire era più erboso del nostro tanfo di copertone sfregato sull’asfalto. “Tu hai fatto anche l’esame con Menegazzi?”. Era il professore di storia del cinema muto; un tipo sovrappeso ma scavato sulle guance e fin troppo loquace per la materia insegnata.
Si dichiarò entusiasta di alcune lezioni e io la assecondai fingendo lo stesso entusiasmo. “Scusa e il risvolto politico di Tempi moderni non è stato…abbagliante?”. Si chiamava Chiara, aveva i riflessi dei capelli dorati e gli occhi azzurrognoli erano vivi e ingenui, un connubio micidiale per un romantico come il sottoscritto. In compenso i risvolti dei film mi interessavano poco, in classe mi si tappavano le orecchie. Charlie Chaplin mi piaceva anche ma quel gonfiore dato alle interpretazioni uccideva la vena di semplicità con cui gli artisti -secondo il mio finto modestissimo parere- congegnavano un’opera. “E’ stato come vedere ogni cosa finalmente alla luce del sole” risposi. Il mio amico, Giovanni, tenutosi in disparte perché non seguiva lo stesso corso, mi fissò alzando un sopracciglio di sospetto. Non lo badai, continuai ad ascoltare Chiara e a fumare. Quando ci salutammo e riprendemmo i corridoi dai rimandi ospedalieri della sede mi chiese se avevo intenzione di provarci. “E’ un bel pezzo”. Annuii. “Però non lo so, ha quel tono di voce…”. In realtà aveva un tono di voce normale: volevo solo non dimostrarmi così interessato da dover giustificare poi possibili fallimenti d’approccio.
Vi risparmio la tiritera. Amicizia sui social, primi messaggi, primo appuntamento in un caffè letterario con i libri mai sfogliati messi in bella vista su scaffali sbilenchi e polvere portata direttamente dalle soffitte più inutilizzate della città; una cenetta in un posto semplice dai prezzi funambolici (se fosse economica, la semplicità sarebbe solo e banalmente semplice). Quei posti che, a dirla tutta, piacevano sia a me che a lei. Ci intendevamo: eravamo veri e falsi sugli stessi versanti. Il giorno dopo essere stati a letto per la prima volta -una serie infinita di movimenti lenti e premurosi- annunciai il successo al gruppo di amici. Ci trovavamo al solito bar, un locale stretto e fumoso dalle pareti alte e giallastre con i tavoli segnati e un banco pieno di taglieri dove si alternavano crostini e panini. Avevamo il nostro tavolo, le nostre usanze, i nostri argomenti. Francesco era una promessa nell’ambito della medicina. Non aveva cannato un esame e durante i mesi di tirocinio non gli erano stati risparmiati complimenti. A vederlo invece, si sarebbe scommesso su un imminente attività di vagabondaggio professionale. Aveva i capelli scombinati sugli occhi e un’andatura pigra, affaticata, come se la gravità fosse più efficace su di lui. Al contrario, Antonio aveva le spalle larghe, la postura sempre fiera e in cerca di attenzione. Sopravvalutava le sue capacità amatorie ma, proprio perché le sopravvalutava, spesso la boria veniva scambiata per sicurezza e otteneva più risultati di quanti una persona sana di mente potesse prevedere dopo averlo conosciuto. Tentava per la quarta volta di superare il primo di anno di ingegneria. Giovanni era basso e silenzioso, la figura saggia del quartetto. Quando non si sapeva con esattezza una nozione sul mondo (escludendo la medicina) si chiedeva conferma a lui. Nonostante le infinite abilità dimostrate al liceo, aveva scelto di studiare storia e di diventare professore perché credeva alla vena innata di educatore: era da anni anche l’allenatore di una squadra di calcio giovanile. Infine io, i miei studi sul cinema e la pretesa di essere quello creativo, il guru dell’espressione libera dai canoni estetici e dalle pretese mondane. “Lynch è sopravvalutato” avevo detto una volta, così tanto per dire. “Ma quindi esci con Chiara, la Rattero? Non ci credo! N-o-n-c-i-c-r-e-d-o-!”. Sul tavolo si alzavano e si abbassavano i bicchieri su cui ballavano i soliti drink: spritz Campari per me e Francesco, vino rosso della casa per Giovanni e una birra ipa media per l’incredulo Antonio. “E sta andando…da Dio” ammisi in un sussurro.
I mesi si susseguirono in vortici di piacere e conoscenza. Mantenemmo un affiatamento dolce, a tratti melenso, quando cercavamo di andare d’accordo senza esserlo veramente. Davamo l’una all’altro la proiezione adatta, o quella che pensavamo fosse adatta. Un giorno, seduti in un tavolino all’ombra della costruzione gialla che comprendeva un semplice bar dalle sedie cromate, davanti a noi resti incrostati di caffè nelle tazzine, lei mi disse che avrebbe voluto vedere ogni angolo del mondo. Che, se ci fosse stata una reale possibilità, avrebbe scandagliato i luoghi come un archeologo del presente. Inizialmente annuii, poi pensai di provare a mettere in campo parte della mia autenticità: i tempi erano maturi per incrinare il rapporto in via definitiva. “Io non è che sia così interessato a viaggiare”. Il suo sguardo regalò un accenno di panico, un scintillio d’isteria al sopracciglio e al labbro. Mi fissò dubbiosa. “In che senso?”. Cercai nel panorama attorno –la via, i passanti, i cicalecci divertiti di una bancarella di frutta e verdura- un appiglio, le giuste parole a rappresentare la vasta (?) gamma delle mie sensazioni. “Voglio dire. Qualcosa sì, mi piacerebbe vedere…Ma tutto il mondo? Non è troppa roba?”. Lei alzò le sopracciglia. Il suo silenzio era impegnato in un monologo severo. “E cosa non vorresti vedere, scusa?”. “Non lo so. Non credo andrò mai, a meno di…contingenze inaspettate, che ne so… in Indonesia”. “Quindi non ti piace l’Indonesia. Ma non ci hai mai messo piede”. “Non ho detto che non mi piace. Non lo so, a naso escludo possa piacermi tanto quanto altri posti. Scusa, a te non ispirano i posti prima di andarci?”. Lei fissò la tazzina, la mia faccia. Ci pensò. “No. Io voglio andare ovunque per vedere com’è”. Avrei risposto “NON ANDRAI MAI OVUNQUE!” ma lasciai perdere e provai a considerare la sua curiosità come un pregio. Dato che cambiammo discorso, ci riuscii.
I problemi vennero fuori pian piano. Sembravano sparire, tanto erano diluiti, ma in realtà si sommavano senza dichiarazioni. Quando si doveva organizzare qualche serata fuori, Chiara auspicava gite picaresche fino ai confini regionali, mentre io me ne sarei stato volentieri in casa a scopare, o al massimo avrei passeggiato per le vie cittadine verso il solito bar con la solita insegna e i soliti andirivieni. Un cinemino, perché no? Chiara odiava il cinema al sabato sera; considerava persa la serata. Eh? pensavo tra me e me -lo sviluppo del pensiero era inversamente proporzionale alla sua sincerità. Quando decidemmo di andare a Roma, un weekend lungo prima di una sessione di esami, io intendevo visitare Roma, lei il Lazio; io volevo muovermi per scoprire dove mi sarei fermato ancora, lei considerava la fermata il riposo necessario tra una partenza e l’altra.
Ci lasciammo senza troppi rimpianti una sera dalla temperatura mite, appena prima di cena. Mi ricordo, eravamo su una via vuota in cui potevamo sfogare le decisioni travestite di dubbi. “Non credo possa continuare. A meno che tu non voglia venire con me”.
“Dove vai?”.
“Parto tra due settimane”.
“…Per dove?”
“Faccio Paraguay, Bolivia e Perù. Sto via tre mesi”.
“E l’università? Gli esami?”
“Li recupero alla prossima sessione, tanto sono giusta”. Gli occhi formarono le parole Io sono giusta, non tu. Difficile controbattere i dati di fatto.
“Allora?”
“Cosa?”
“Verresti?”
Sto cazzo pensai -anche qui, sincerità alta, sviluppo scarno- ma tentai di improvvisare seri ed implacabili impegni di carriera di creativo mai iniziata. “Non riesco. Ho troppo…Mi piacerebbe ma…Insomma qui devo…”. Ci augurammo ogni bene recitando una mortificazione forse eccessiva.
Ci trovammo fuori dal solito bar, fumavamo una sigaretta prima di entrare. Antonio, Checco e Giova mi fecero le domande di rito. Cos’era successo, come mai, se c’erano idee di recupero. Rimanevo in parte dispiaciuto, in parte sollevato. Entrammo che ero a metà della spiegazione dei fatti della rottura con Chiara. Il bar era pieno, odorava di alito e alcol. “Buonasera, buonasera” ci disse il proprietario Geppi, un uomo barbuto e con un sorriso serio. “Il vostro tavolo è occupato, ma tra poco credo si liberi”. Ci guardammo, scrutammo la situazione. Al nostro posto erano seduti due uomini in completo, i capelli radi sul capo e confusi attorno alle orecchie, i bicchieri con il solo ghiaccio sciolto all’interno. Oltre, c’erano due tavoli vuoti. “Ci sediamo?” chiese Antonio. Mi grattai la testa, quasi in confusione. “Aspettiamo che si liberi il nostro tavolo” disse Giovanni, il saggio.