Ero di turno. Capitava che, mentre Lucio finiva le ultime commissioni, io aprissi il pub. Accendevo le luci, abbassavo le sedie dai tavoli, azionavo la cassa, e aspettavo i clienti, guardando fuori le macchine ferme al semaforo e quelle che sfrecciavano lungo la strada d’immissione, e le biciclette e i passanti, a quell’ora perlopiù giacche sudate e stanche dalla giornata. E quanto la volevo anche io, la mia giacca sudata, e il mio ufficio, e lo stacco verso il tramonto, e la mia carriera avviata verso un ramo sicuro dell’economia. Sennò cosa mi ero preso una laurea a fare? In quel periodo mandavo curriculum e richieste per un colloquio come la pioggia di un temporale estivo; e sì, le risposte arrivavano come la pioggia nel deserto. Un’azienda aveva dato riscontro -era un supermercato e cercavano addetti amministrativi- così mi sarei dovuto presentare l’indomani verso le nove e mezza alla sede centrale. Avevo anche chiesto a Lucio di staccare prima e lui non aveva fatto storie. “Ho puntato cinquantamila euro sul tuo successo” aveva puntualizzato.
Quella sera, in quell’ora imprecisata in cui il cielo si tinge di un azzurro opaco e la luce sembra faticare nel suo compito naturale, arrivò Renato. Era un tipo che aveva sostituito la camminata con l’arranco. La corporatura era larga e omogenea, come pure la faccia, che ricordava quell’attore comico degli anni ’60. Walter Matthau, con –forse- un cipiglio più severo. Cominciava la conversazione con il solito “Allora nino, come va?”. Io mi chiamo Tommaso e non so che in modo nino possa c’entrare con il mio nome, ma Renato mi aveva sempre chiamato così, e onestamente avevo abbandonato l’idea di correggerlo abbastanza presto. “Non mi lamento. Domani ho un colloquio”. “Urca urca, tirulero”. Era il suo modo di dire, copiato pari pari da Little John. Gli porsi il suo bicchiere di vino e continuai: “Amministrazione. Contabilità”. Diede una prima sorsata, lo faceva con una ricercata lentezza, come fosse la parte cruciale di un rito. Mosse la bocca e le guance come se avesse la lingua imbizzarrita, mandò giù e disse: “Mi raccomando. Ricordati che ho scommesso centomila euro sul tuo successo”. L’aria cominciò a profumare di vino. Lui e Lucio si sfidavano a chi puntava di più, e, se non avessi saputo che quei soldi non ce li avevano, avrei provato un po’ d’ansia da prestazione. “Te invece? Hai trovato il bastone da passeggio?”. Il giorno prima avevamo parlato di quando era stato un instancabile escursionista. Non perdeva occasione di appuntare le targhette di commemorazione dei rifugi raggiunti. Aveva dovuto smettere dopo l’incidente sul lavoro, che lo aveva reso zoppo per almeno una decina d’anni. “Macchè, macchè”. Un sorso e poi un sonoro sospiro, fissando il legno cerato del banco. “Lo avrò buttato via in quegli anni. Erano anni, sai…di rabbia”. Sospirò di nuovo. Annuii e proposi un brindisi: “Al mio colloquio di domani!”.
Entrò Lucio, sbuffando di fatica. Teneva due casse di soda al limone tra le braccia. Sputò un “Ehilà” a entrambi, e, con uno scatto delle gambe, posò le due casse sul banco. Cominciai subito a trasferire le bibite nei frigi bassi. “Allora, tutto bene?”. Lucio diede una pacca alla spalla di Renato. Lo sforzo gli aveva ricoperto la fronte di una patina lucida e i capelli mori, di solito ben sistemati in una riga leggermente spostata a destra, si erano alzati in un ventaglio proprio all’altezza della riga. “Stavamo brindando al colloquio!”. “Allora passa subito un bicchiere” mi ordinò. “Quanto avevi scommesso?”. “Centomila”. “Eh, adesso! Non erano ventimila?”. “Due colloqui prima erano ventimila”. Lucio prese il bicchiere. “Allora mi tocca alzare la posta”. “Quanto vuoi, tanto non va” dissi io; in realtà per scaramanzia, perché speravo con tutto me stesso che andasse bene. “Io metto sul piatto centocinquantamila euro!”. “Urca urca” lo accompagnò con una risata Renato. Demmo vita al tintinnio del vetro.
Il movimento al pub cominciò dopo il tramonto. I pienoni mancavano da qualche mese e questo impensieriva Lucio. Aveva aperto il locale insieme alla moglie, poi la moglie era mancata, e aveva dovuto crescere la figlia da solo -aiutato dalla sorella e dal fratello- e riuscì a barcamenarsi tra i clienti e le necessità della bambina fino a che non era diventata una giovane donna. Poi si era concentrato solo sul pub: gli aveva dato quell’aria da osteria di lusso -tenendo però la barretta più verso l’osteria che verso il lusso- e per un buon periodo -il periodo in cui venni assunto- andò alla grande. Poi, complice il Covid e il poco spazio all’aperto, i numeri avevano smesso di toccare certe vette. Ora stentavano alla sufficienza. “Posso andare sulle undici?”. Lucio guardò i tavoli e sospirò rumorosamente. “Se continua così, puoi andare anche alle mezza”. Dalla porta, le luci dei lampioni si mischiavano a quelle dei fari che si mischiavano a quelle dei semafori. “Andrà meglio domani” dissi, anche se stavo diventando ripetitivo. Lucio sorrise e sospirò ancora. “Domani hai il colloquio. Mi raccomando, una camicia”. “Sì, papà” replicai e, verso le dieci e quaranta, mi sfilai il grembiule.
Oltre alla camicia, mi ero messo dei pantaloni blu con la riga in mezzo. Ero agghindato. L’ufficio del responsabile delle risorse umane era separato dallo stanzone degli altri impiegati da una vetrata. La segretaria mi aveva fatto sedere di fronte alla scrivania. Notai che era particolarmente in ordine, come se gli oggetti dovessero mantenere la perpendicolarità e il parallelismo reciproco. Il responsabile entrò, sistemandosi la cintura. Mi tese la mano. Aveva la carnagione abbronzata e la faccia che ricordava un picchio; un neo in rilievo sulla punta del naso. Si sedette, pescò da un piccolo faldone il mio curriculum. “Allora, allora, allora” disse. Si schiarì la gola. “Bene”. Alzò gli occhi e cominciò a parlare.
Raccontò di com’era strutturata l’azienda e di cosa cercavano esattamente. Ascoltai, chiedendomi se stavo mantenendo uno sguardo interessato. Sembravo uno scemo? Sorrisi quando fece una pessima battuta sul pesce. Annuii spesso e con altrettanta frequenza sussurravo “certo”. Quando toccò a me esordii con: “Devo dire che, dalle sue parole, io potrei davvero essere la persona adatta a questo lavoro”. Guarda un po’. Dissi che avevo interessi e propensioni, e che, all’università, avevo avuto una folgorazione per la contabilità. Guarda un po’. Fu lui a farmi un’ultima domanda. “Quale ritiene che sia la sua migliore caratteristica?”. “La mia migliore caratteristica?” ripetei d’istinto. Lui annuì, poggiandosi l’indice e il pollice alle labbra. Mi schiarii la gola e sentii la camicia bagnata sotto l’ascella destra. “Direi che sono…sono…”. Non sapevo se dire qualcosa che potesse interessare l’azienda o se essere sincero: optando per la seconda, avrei perlomeno dato prova a me stesso del fatto. “La sincerità” dissi con tono deciso. Senza vibrazioni d’insicurezza nella voce. Lui annuì e disse che avevamo concluso e che mi avrebbe fatto sapere.
I giorni successivi passarono senza responsi. Renato suggeriva di pensare ad altro, Lucio di pensare a qualche ragazza. Avevo da sistemare anche quella casella. Vuota, ovviamente. I clienti mantenevano la loro presenza a macchia di leopardo, quindi faticavo davvero a distrarmi.
Dopo una settimana mandai una e-mail, e, dopo due, risposero che purtroppo il mio profilo non corrispondeva a quello ricercato dall’azienda. Andai al pub con un grumo di rabbia sul petto. Quella sera arrivai poco dopo l’apertura, con Renato già chino sul suo bicchiere, e Lucio a mettere ordine alla zona del banco. “Niente da fare” annunciai “…Mi hanno scartato”. “Ah, un peccato, nino” disse Renato, “…ma scommetto che ci sopravvivi”. “Andrà meglio la prossima volta” rincarò Lucio, dandomi una pacca sulla spalla. Mi ero già infilato il grembiule, lo guardai e feci ciò che più di tutto avevo imparato da loro. Più di tutto quello che avevo imparato in quel pub, alla fine dei conti. Uno strano modo di reagire alle sventure della vita e un antidoto magico pronto a sciogliere i grumi di rabbia.
Caricai il respiro e…sospirai.