La pizzeria Meazza.
La prima volta che in classe mi è stato chiesto “Cosa vuoi diventare da grande?” ho risposto “Voglio diventare pizzaiolo e aprire la pizzeria Meazza”. Ovviamente nella mia fantasia il locale aveva tinte nere e azzurre e il sabato sera o la domenica lo spazio ed il tempo erano dedicati alle partite; non pensavo al fatto che avrei dovuto fare davvero il pizzaiolo, stendere l’impasto, preparare la linea d’ingredienti e tutto il resto. Che ne sapevo.
Se poi ho acquisito una maggiore consapevolezza sulle fatiche di un mestiere, questo è probabile ma non sicuro (al massimo posso affermare di aver capito quanto il lavoro desse seccature ai miei genitori e che queste seccature, in parte, si riversavano a casa); di certo ho continuato a sognare di diventare un professionista in ambiti per lo più sconosciuti, o, ancora peggio, mistificati dai media.
Dopo un lungo periodo in cui ho smesso di pensare in modo tangibile alle aspettative, concentrandomi in un eterno ed irresponsabile presente, mi sono ritrovato in quinta superiore a dover decidere dove andare all’università. Mentre tutti cercavano la via da intraprendere valutando il percorso di studi, le attitudini e le delusioni delle materie studiate per cinque anni, io sapevo di avere una voglia scaduta già al secondo anno e l’intenzione perenne di non prendere sul serio niente al di fuori della mia persona. Un approccio alla vita quantomeno infantile, legato –se provo a far coincidere tutti i punti- alla paura dell’errore o del più epico fallimento (che avessi paura di fallire a diciannove anni mi fa sorridere, come a diciannove mi faceva sorridere la paura degli studenti per l’esame di terza media). Il pensiero era: se faccio vedere che non me ne frega molto, la gente penserà che non ce la faccio per semplice disinteresse. Non che attuassi un piano difensivo lontano dalla mia indole -in realtà di interessi ne avevo e ne ho davvero pochi- ma pestavo su ciò che pensavo convenirmi in termini sociali. Insomma: meglio indifferenti che poco svegli.
Se avessi dovuto collegare il percorso accademico alle materie preferite del liceo, la scelta si faceva problematica: avevo studiato giusto per diplomarmi, dopo varie esortazioni e minacce dei miei genitori. Se, invece, si stesse parlando di proiezioni, era da po’ -come ho già detto- che non ne facevo. Avevo già troppi problemi come le ragazze, le questioni tra amici, racimolare qualche soldo in più per i weekend (ero diventato un aiuto-pizzaiolo e il sogno della pizzeria Meazza era tramontato sotto la fatica degli orari e i ritmi degli ordini). Così ho optato, ancora, per ciò che non conoscevo affatto. Il cinema. Lì per lì non avevo chiaro il ruolo a cui ambivo. Regista, attore: era uguale. Ero incantato dai sorrisi hollywoodiani, mi sembrava un mondo fatto di brindisi e serate libere. Ho pescato la prima facoltà vicino e mi ci sono iscritto.
Gli studi mi hanno aperto subito gli occhi su un fatto: era già troppo tardi per tutto. Volevo fare il regista?…E i corti girati dove sono? Attore? Dovevi iniziare a sei anni con le pubblicità della Mulino Bianco. Quindi cosa mi restava da fare? Molti miei compagni suonavano strumenti, volevano diventare grandi musicisti, ma io avevo strimpellato il pianoforte giusto un paio d’anni con risultati tutt’altro che entusiasmanti. Ho scoperto il mestiere dello sceneggiatore quasi per costrizione. Quale attività non richiedeva particolari limiti di età? Scrivere, battere i tasti del pc, inventare su carta. Visti i possenti muri attorno, pendii cupi e inviolabili, mi si sono tuffato senza dubbi, finalmente con in mano e in bocca una risposta pronta alla domanda che tra coetanei sembrava prevalere come un macigno e uno stemma della persona: “Cosa vuoi fare finita l’università?”. Facile: lo sceneggiatore.
Anche qui, del mestiere non conoscevo nulla, se non abbozzate voci di corridoio. La mia carriera, fino a quel momento, era un miscuglio di mancanza di voglia e di attitudine unito ad una maschera da non svelare. In qualche modo le regole però erano cambiate: non era più meglio indifferenti che poco svegli ma meglio appassionati che indifferenti. Si era aggiunto un livello e dovevo stare al passo.
Di sceneggiatura non ne avevo mai scritta una, forse ne avevo letta mezza, e la tesi di laurea è sembrato un buon momento per sperimentare la mia ignoranza. Di tutti gli aspetti sul risultato che avrebbero potuto interessarmi –la storia, i personaggi, la tecnica, i tempi- non ho dato abbastanza importanza alle parole della professoressa riguardo l’introduzione: “Davvero notevoli le pagini iniziali. Scorrevoli, chiare.” Quel pippozzo inutile preteso esclusivamente da lei? Ok, grazie. Possiamo parlare dell’idea geniale di mettere dei sacchetti del pane in testa agli attori protagonisti? La percepisce l’allegoria? Non la percepisce? Strano.
In generale continuavo a sognare di avere un sogno e allora mi coccolavo nell’idea di costruire copioni. Del resto, dei vari lavori che avevo fatto, dei molti di cui potevo solo immaginare le mansioni, mi curavo poco. Ho provato a fare svariati colloqui curriculum alla mano, e in generale ho sempre avuto una difficoltà enorme a motivare la mia candidatura agli annunci. “Perché vuoi venire a lavorare qui?”. Perché un lavoro vale un altro, ho sempre pensato. E’ questione di soldi. Ci sono persone baciate dalla fortuna di avere un’idea chiara e abbastanza distorta del ruolo desiderato –avvocato, dottore, psicologo, ecc- e c’ero io, interessato da sempre al corollario di attività al di fuori degli obblighi. Ma questo non potevo ammetterlo, la mia indifferenza era ormai guardata con sospetto e sdegno, alcuni azzardavano addirittura rimproveri. Ad un anno dalla laurea mi sono iscritto allora ad una scuola di scrittura per cinema, tanto valeva fare qualcosa.
Prendeva forma, intanto, una rivelazione nuova: quando si discuteva dei classici lavori d’attesa, quelli vuoti, spesso di controllo vago e impreciso, mentre i più lamentavano una sorta di noia e di intolleranza, a me non dispiacevano per niente. Adoravo poter divagare tra i miei pensieri senza che qualcuno venisse a dirmi cosa pensare e come. Certo, divagavo meglio sul divano, ma se potevo farlo anche nella sede di lavoro, mentre sparavo con una pistola i biglietti di una mostra di cui non stavo davvero attento a controllare la validità…perché no? Il pane dovevo pur portarlo a casa in qualche modo. Non lo ammettevo mai -che mi piaceva non fare nulla al lavoro- perché volevo mantenere la mia maschera di decenza e di aspirazioni costruite più per un bisogno verso gli altri che per il sottoscritto. Cominciavo a sentirmi come in quinta superiore, i giorni prima del compito di matematica o di fisica; avevo smesso di studiarle da anni –ero fisso sul 3, i compiti puntualmente bianchi- e mentre tutti si affannavano a risolvere limiti e strambe derivate, io mi godevo quei pomeriggi, pronto e rasserenato nella rassegnazione alla prossima insufficienza grave. Il problema era che ora i giorni prima del compito di matematica era diventati un po’ tutti i giorni, e di ogni anno.
Ho incontrato la letteratura per sbaglio, e sono certo che tutti quei movimenti, tutti quegli obblighi esterni contro la mia volontà, mi abbiamo aiutato ad essere lì al momento giusto. Da solo, senza aver provato a soddisfare l’immagine formata dagli auspici di altri, sarei stato solo un sciocco totale e non parziale. Ma dicevo: la letteratura. In un colpo solo, un colpo molto lungo, mi ha fatto capire l’inutilità delle maschere e della strenua fatica di tenerle addosso; il relativo piacere dei sogni vissuti nella loro dimensione grandiosa e immaginata, la realtà presenta sempre il conto, qualsiasi siano le fantasie che si erano fatte in precedenza; e che -per quanto rimanga importante raggiungerli- le soddisfazioni per gli obiettivi durano davvero poco. Per usare una metafora: meglio rimanere costantemente affamati nella tavola giusta che ritrovarsi d’un tratto sazi.
Scrivendo ho poi realizzato l’importanza del lavoro nei suoi termini sostanziali. Quanto conti, come in ogni ambito, dedicarsi. I risultati e le delusioni, i primi ad arrivare, sono sempre lì, sotto i miei occhi. Nella prossima frase.
E della pizzeria Meazza magari un giorno scriverò una storia.