GIOCARE A BASKET – parte tre

LA MATTINA DI NATALE

Abitavo in un grande edificio che -oltre a due appartamenti- raccoglieva uffici e capannoni, e che era contornato da una dignitosa distesa di cemento. Molti si rammaricherebbero della mancanza di verde –c’era solo un piccolo giardinetto sulla sinistra, appena superato il cancello d’entrata, largo abbastanza da far passare i camion dell’azienda di mio zio- ma io ero abituato a quel tipo di ambiente esterno composto da ruspe, pali, cartelli stradali ammassati e amianto ondulato. La cosa mi andava bene così; anzi, si rivelò più che perfetta per creare il mio nido cestistico casalingo. Dovevo solo convincere mio padre a comprare un canestro.

Lo spazio sul retro era stato destinato al calcio. Posizionavo due coni nel punto d’incontro murato dei due capannoni di mio zio. A pochi metri dalla destra e dalla sinistra dei coni si alzavano le porte vetrate dei capannoni. Era imponenti, alte fino al tetto. Spesso riuscivo a creparle o romperle di netto con i miei tiri fuori misura, e questo fu uno dei motivi per cui lo zio aveva festeggiato il mio passaggio al basket.

A novembre cominciarono le ricognizioni al Giacomelli Sport, un megastore che raccoglieva, se non il meglio, almeno un buon ammasso di articoli e attrezzi sportivi. Prima delle porte automatiche d’accesso svettavano come in una sfilata i canestri a struttura intera. Li sognavo di notte; specialmente quello con il tabellone largo in vetro rinforzato e una serie di altezze che andavano dalla regolamentare a quella del mini-basket (“Ci posso fare le schiacciate!”). Costava troppo, sentenziò mio padre.

In tandem con la ricerca del canestro adatto –se prenderlo con il tabellone o meno, di che colore  la retina?Questo sembra troppo stretto– giravamo attorno alla casa, io a seguire mio padre, e ogni tanto mio fratello a seguire me, con l’obiettivo di trovare il giusto posizionamento. Il braccio lo indicò una domenica o un sabato. “Lì” disse mio padre. Nell’edificio centrale, all’angolo che dava sullo spiazzo destinato al calcio. “La finestra degli uffici è abbastanza lontana…si spera” aggiunse.

Inoltre, la zona cementata cambiava nettamente da ruvida a liscia -da scura a chiara- imitando alla perfezione, sui cinque sei metri di distanza dalla parete, la linea dei tre punti (sulla destra, verso i capannoni, manteneva anche una sorta di curvatura). “In più hai un faro che puoi accendere” e mio padre lo indicò in alto, appena sotto il tetto dopo il terzo piano. “E’ perfetto!” dissi, la mia mente già a proiettarmi sudato e concentrato in un’ambientazione notturna.

Lo appendemmo appena iniziate le vacanze da scuola. Scala, bulloni, cacciavite. Alla fine avevo optato per un modello classico, la retina blu, rossa e bianca; il tabellone bianco e nero. Cominciai a giocarci mattine e pomeriggi. La mattina di Natale il cielo era grigio, l’odore del freddo riempiva le narici. Mi ero messo una felpa vecchia di mio padre con su scritto Yale, un rimasuglio del suo mito americano. Palleggiavo, fintavo la virata, tiravo, andavo a rimbalzo. Avevo deciso di appenderlo a due metri e ottanta, un po’ più basso dell’altezza regolare: magari non nei prossimi mesi, ma un giorno sarei arrivato a schiacciare. Mia mamma mi chiamò dalla finestra. “Vieni su a prepararti! Stanno per arrivare i nonni!”. Palleggiando, mi posizionai dietro quel nuovo ruolo che aveva il cambio di forma del cemento. “Arrivo!”. Altri due palleggi a testa bassa. Dovevo segnare l’ultimo tiro da tre della sessione di gioco.


UN NUOVO COMPAGNO

Per gli allenamenti ci eravamo da poco trasferiti nella palestra di un liceo. Da fuori la struttura sembrava una tempio pescato fuori da un film di fantascienza anni ’70. Il campionato procedeva senza grandi scossoni, il rapporto di vittorie e sconfitte era più o meno di due a uno. Miglioravo al palleggio e nei movimenti senza palla. Era un giorno come un altro di gennaio, freddo, grigio, il rumore aritmico dei palloni sulla gomma consumata, gli sdeng e i ciof come vergogne e trionfi.

Arrivò un ragazzo, si sedette sulla prima linea di spalti di fronte al campo. Prese ad allacciarsi con decisione le scarpe. Teneva una fascetta di spugna sopra i capelli biondi; io e lui eravamo gli unici con una fascetta addosso. “Chi è?” si cominciò a mormorare. Nessuno sapeva niente. Si mescolò alla folla di tiri e palleggi. Lo studiai interpretando la parte del ragazzo disinteressato, parte che mantenne anche il mio compagno di squadra Fetti. Il nostro pensiero era scritto sulla fronte, sui battiti appena aumentati del cuore: “Sarà mica più forte di noi?”.

Sembrava cavarsela. Palleggiava tra le gambe e dietro la schiena senza apparenti difficoltà. Aveva una bella meccanica di tiro.

Prima di iniziare l’allenamento vero e proprio, Lucia e Stefano, allenatrice e vice-allenatore, ce lo presentarono. La squadra ordinata in una lunga fila, lui di fronte ad osservarci, il viso tranquillo e a ricordare un po’ le sculture romane. Si chiamava Giorgio. Bel nome, sì sì, ma era più forte di me o no?

Dopo i soliti convenevoli basati su esercizi, schemi di contropiede e a difesa schierata, arrivò il momento della partitella. Quel nuovo stronzetto era più forte di me o no? La domanda stava diventando più fastidiosa delle possibili risposte. L’allenatrice ci divise. Finimmo in squadra assieme. Meglio? Peggio? Dovevo osservarlo, studiarlo, quindi decisi di passargli la palla appena possibile.

Alla seconda azione, uscì da un taglio. Eccoti qua: fammi vedere. Si abbassò sulle ginocchia in  posizione frontale al suo difensore. Fece un palleggio forte verso sinistra, poi virò verso l’interno dell’area, due palleggi. Si alzò in tiro. Ciof. Era davvero così perfetta come sembrava? Noooooo… era stato molto fortunato. Fetti, dalla squadra avversaria, sorrideva e faceva no con la testa: con una difesa debole, tutti sembrano forti. Lo pensò senza dirlo e lo pensai anch’io.

Azione di attacco degli avversari. Giorgio intercettò il passaggio, scattò in palleggio, sulla difesa di Fetti fece una finta, cambiò mano in aria e poi l’appoggio elegante al tabellone. “Woooo” si sentì da qualche compagno entusiasta. Non capivo cosa ci fosse da essere entusiasti, era una cosa che avevo fatto mille volte anch’io.

Negli spogliatoi ci presentammo una seconda volta stringendoci la mano. “Oh, molto bello il tuo passaggio per…Francesco? Quello dal fondo del campo”. Intendeva un assist che aveva saltato a sorpresa una linea di passaggio. “Grazie” gli dissi. Mi sfilai una scarpa, il calzino come sempre pregno di sudore. “Anche la tua virata prima…non male” mormorai. “Ah” disse Giorgio, “Beh, grazie”. Andò nella zona delle docce. “Giochi da tanto a basket?” chiesi. “Da quando ho sei anni”. Mi tolsi la maglia, sempre il sudore a farla pesare il doppio. Mi potevo rincuorare, in ogni caso io giocavo solo da qualche mese. Era normale che lui…che lui fosse più forte di me? La conclusione naturale del ragionamento non mi piacque. Cominciai ad odiare la risposta definitiva all’interrogativo.

Meglio continuare a domandarselo, conclusi.