GIOCARE A BASKET – parte 4

FOTTIAMO QUEI BASTARDI DELLO ZERO BRANCO

Partivo dalla panchina. Fui nominato senza celebrazioni ufficiali sesto uomo. Venendo dal calcio, la cosa sarebbe potuta risultare fastidiosa: in realtà giocavo in abbondanza e non potevo lamentarmi. Dalla mia avevo una buona resistenza fisica e delle attitudini consolidate alla difesa (in questo caso, invece, basket e calcio si assomigliano: una volta capiti i movimenti e gli schemi, basta metterci la tenacia). Il mio arsenale in attacco era risicato, se confrontato con il tiro e il palleggio di altri compagni, ma non ero atterrito, continuavo a studiare e a studiarmi.

Era una domenica mattina di febbraio, gelida, spenta. Partimmo dal parcheggio esterno del complesso dove si trovava il nostro tendone, diretti verso Zero Branco, i nostri avversari di giornata. Erano secondi, noi sesti. Non avevamo grandi speranze. “Dai che li fottiamo” aveva detto sorridendo il papà di Riccardo, e lo aveva detto con la sua voce masticata e rauca. Tra giocatori, ci scambiammo qualche sorriso di stima verso l’incitamento dal tono volgare e scorretto.

Un’eccezione, il mio nome tra i cinque titolari: dovevo marcare uno dei due capisaldi dell’altra squadra. Uno con il collo grosso e il fisico che sembrava una scatola di latta piena e sigillata. Aveva il numero 21 come Garnett e Duncan -io mi ero preso il 15 di Vince Carter, era uno dei pochi disponibili dall’anno precedente. Palla a due, partita. Qualche timido incitamento. Mi liberai con uno scatto -dato che le marcature erano a specchio e mi stava marcando una scatola di latta piena- quindi ricevetti palla sotto canestro e superai il panico da canestro troppo facile. Toc della tabella, ciof della retina. 2 a 0. “Andiamo!” si sentì urlare sempre il papà di Riccardo dalla tribuna. Quella mattina sì che ci credeva.

Il 21 faceva sudare. Penetrava tra la difesa come uno schiacciasassi, veniva voglia di scansarsi e io dovevo rimanergli davanti. Gomitate sullo sterno e sul collo. A rimbalzo ricordava uno strumento di tortura, gomitate sul mento e ancora sullo sterno e sul collo. Bastardo pensavo tra una gomitata e l’altra, quando non erano troppo ravvicinate e mi lasciavano pensare a qualcosa.

La partita si mantenne incredibilmente in parità. L’aria cominciava a sapere di sudore. Fetti sembrava in vena, il rilascio dei tiri prometteva ogni volta la piacevolezza di un canestro. Giorgio e Paolo mettevano peso all’attacco, io reggevo la marcatura difensiva. A metà del secondo quarto non ero ancora mai uscito. Cominciavo a fissare la panchina ad ogni sirena d’avviso, aspettavo che Lucia urlasse “Leo, fuori!”. Invece rimanevo dentro. Chiedere il cambio non l’avevo mai considerata un’opzione.

A qualche minuto del terzo quarto, rubai una palla a difesa schierata, palleggiai fino al canestro avversario, una finta di terzo tempo, riabbassai la palla verso il bacino e pronto lo scarico a Francesco, il nostro centro, in corsa a tutta birra sulla sinistra. I difensori erano entrambi saltati per stopparmi. Di nuovo pari e i timidi incitamenti si trasformarono in un coro di esultanza -probabilmente era già capitato ma non in azioni in cui ero il diretto interessato. Il 21 mi faceva dannare. L’imperativo che risuonava nella mia testa era: trovare il fiato, resistere sulle gambe, ammortizzare gli urti. Un cambio. Ponzano Basket…il 15? No. Allora di nuovo: trovare il fiato, resistere sulle gambe, ammortizzare gli urti.

Iniziai il quarto quarto che avevo trenta minuti di partita pieni sul groppone. Per un calcolo legato alla sopravvivenza, smisi di partecipare ai movimenti d’attacco per rimanere reattivo in difesa: ero lì per quello. Un Ben Wallace forse un pelo meno muscoloso, e un pelo meno grintoso, e un pelo meno alto, e un pelo meno scattante, e un pelo meno pauroso, e un pelo meno rissoso…ma ero comunque il Ben Wallace della situazione. A fare gli Hamilton e i Billups ci stavano pensando i miei compagni.

Vincemmo grazie ad una serie di tiri infilati come dei circensi azzeccano i loro numeri. Più otto e Zero Branco zittito in casa. Mi ero giocato ogni istante di partita. Avevo concesso al 21 otto miseri punti; io ne avevo messi 4. Eravamo entusiasti, il papà di Riccardo, il più entusiasta, ci portò al McDonald’s e ci offrì il pranzo. Presi un McMenù e un hamburger in più -il mio tipico pasto da McDonald’s- non badando al languore da secondo hamburger. Il viceallenatore Stefano mi diede una pacca sulla spalla e mi disse “Grande partita!”. Sorrisi, masticando due patatine.

Tornando verso casa, fermo con mio padre sul ciglio della strada, presi a vomitare il McMenù e l’hamburger in più e forse anche l’hamburger a cui avevo rinunciato. Il sorriso mi si era spento sul viso, mio padre continuava a sussurrare con in faccia la contrizione della pietà: “Troppo sforzo, troppo sforzo…”. Dentro di me invece cercavo di tenere alto orgoglio: “Grande partita” mi ripetevo. Grande partita.