Era stata una serata importante, il saluto ufficiale a Renato prima della partenza per New York, dove avrebbe fatto fruttare la laurea in uno studio di finanza. E proprio per il riconoscimento di tale importanza c’era stato un gran dispendio di energie nell’organizzazione della festicciola. Marta aveva messo la casa, perché i genitori erano in montagna e il porticato esterno aveva spazio e sedie a sufficienza; Rita e Letizia si erano date da fare con i dolci, avevano preparato una crostata ai mirtilli e un tiramisù; le pizze -la versione multi-farcita in teglia rettangolare- erano state ordinate e ritirate da Giuseppe e Francesco, alle birre e al vino ci avevano pensato Emanuele e Sebastiano. La musica era stata gentilmente offerta dai gusti disarmonici di ognuno dei presenti e l’odore della prima estate, quel miscuglio di fogliame al miele e freschezza urbana, aveva pervaso l’atmosfera fino ai primi lampi del mattino, quando le chiacchiere, che avevano preso un tono quasi sussurrato come a non voler disturbare il risveglio del mondo, si incitavano a vicenda in barba alle occhiaie.
Il mattino aveva dato riposo alle voglie, e una volta risvegliato, Giuseppe, detto Beppe, il viso stordito dal sonno e dalla mangiata e dalla bevuta, ci mise qualche secondo ad assestarsi e a ritrovarsi con le stesse voglie ricaricate. La finestra di camera sua dava su uno spiazzo di porfido, in mezzo il pennone di un monumento ai caduti. Pioveva, lo scroscio imperturbabile della domenica mattina. Riconobbe i passi del padre in avvicinamento. Apparve il viso tra il battente e la parete; la proiezione calva e rugosa, specialmente sul collo, dei quasi sessant’anni di Giuseppe. A lui, ancora venticinquenne, rimanevano i capelli confusi ma irti, un ammasso pronto a garantire più sostanza che apparenza, e le spalle smilze e tese come un violoncello. “È pronto!” disse il padre.
Il pranzo fu veloce e piacevole. Sua madre si era complimentata con sé stessa per il sugo della pasta e la sorella aveva elogiato il dolce preso in pasticceria.
Ritornò al letto, dove si gettò come stesse facendo del bungee jumping senza corda. Pescò con esperienza il cellulare dalla mappa oggettistica del comodino, comprendente una pila di libri di narrativa e quattro dvd di film con Cary Grant, degli occhiali da sole in stile anni ’40 dalle lenti sfumate, un pacchetto di sigarette morbido e vuoto come uno scheletro, due scontrini stretti e appallottolati come amanti, un lettore dvd portatile su cui una macchia secca ricordava l’ombra perenne a segnare l’unicità dell’usura. E poi polvere di pigrizia più che di incuria. Polvere amichevole.
Caffè? era il messaggio di Francesco.
Ok fu il messaggio di risposta di Giuseppe.
Devo sentire qualcuno?
Ci sono Ren e Seba
Ok
Fuori la pioggia non accennava a fermarsi e il cielo era leggermente più scuro, appena più triste e rumoroso di un solito primo pomeriggio.
Francesco, detto Checco (per gli amici stretti Esco perché aveva preso piede la credenza -per Francesco credenza, per gli amici stretti c’erano dei grosse fette di osservazione applicate alla realtà- che uscisse sempre, ogni ora di ogni giorno, appena trovato almeno un compare d’avventura), gettò sul lettone il cellulare crepato sullo schermo da una ragnatela di vetro. Riprese a studiare l’armadio, a capire cosa mettere sopra i jeans blu già indossati. Le giacche erano tutte blu scuro. Sbuffò, fece scorrere due, tre grucce, poi, stufo di dover prendere una decisione, si gettò sul lettone della camera. Era una stanza larga, con comodini in abbondanza e la finestra che dava sul giardino, dove nel fondo si aizzava una quercia rugosa. Le foglie erano smosse dal vento, la pioggia dava all’immagine un’irrequietezza sbavata. Francesco tastò il lenzuolo due volte fino a che non riuscì ad arpionare la macchina fotografica; si specchiò per un attimo sullo schermo nero, i suoi capelli mossi, la voglia vistosa appena sotto l’occhio sinistro, gli occhi grandi se confrontati con il perimetro del viso; accese la macchina e si mise a scorrere le foto della serata appena passata. Era un grande appassionato di fotografia ed aveva comprato proprio due giorni prima la nuova EOS 2000.
C’erano foto in cui i suoi amici e le sue amiche ridevano al tavolo; c’erano foto in cui Emanuele e Sebastiano sorridevano; c’era la foto in cui Rita era indaffarata a posare le candeline sulla crostata, e c’era la foto in cui Letizia giocava con la canna verde dell’acqua. La teneva in modo tale da poterla usare come frusta; sembrava indirizzarla all’obiettivo, allo stesso Francesco. La bocca era completamente spalancata, divertita; il caschetto di capelli bruno, di solito in ordine, aveva la forma delle ali di un uccello in fase di decollo. La canottiera nera, semplice, lasciava sognare la forma del seno. Francesco riposò la macchina fotografica, guardò per un po’ il soffitto bianco da cui partiva un lampadario sottile e squadrato. Fuori, la pioggia. Sbuffò e si rialzò. Davanti all’armadio prese una giacca a caso, blu scuro.
Si ritrovarono al solito bar, la Trattoria moderna di Lily. Coperto da un grande porticato dove erano disposti i tavoli da esterno, marroni e con le panche fissate, e la vetrina scura a far solo intuire i movimenti dei pochi anziani presenti, loro sceglievano sempre un tavolo vicino ad un videogioco da sala giochi staccato, una sorta di cimelio ancora poco accettato nei musei. Non si erano accordati sull’ora ma tanto sapevano che sarebbero arrivati. Anche perché -si era assicurato Renato- con la macchina di Sebastiano lo avrebbero accompagnato all’aeroporto, a una mezz’ora abbondante da lì.
Ordinarono quattro caffè lisci, accesero quattro sigarette. Si sentivano al sicuro, la pioggia sfiorava di rimbalzo e di tanto in tanto i loro visi; erano solo rinfrescanti schegge impazzite di gocce di pioggia.
“Beh…”, disse Sebastiano. Ren sospirò. Francesco mescolava lo zucchero nel caffè. Giuseppe espirò forte dal naso.
Parlarono della riuscita della festa, quasi aveva raggiunto il successo del ritrovo prima di Natale organizzato…era sempre a casa di Letizia? Aveva vomitato, Seba aveva vomitato. Francesco si ricordava dei capelli lunghi, come era solito tenerli, appiccicati alle guance magre, pezzetti di tramezzini non digeriti come colla istantanea. Si era anche addormentato accasciato al gabinetto…Era preso peggio o meglio di quella volta di Francesco sulla spiaggia greca. Ci fu un dibattito agguerrito sull’alcol bevuto da entrambi, sia in termini di gradi che di quantità. La memoria sembrava una fedele telecamera a circuito chiuso sulla loro vita. Non era Giuseppe che si era scopato la bionda conosciuta a pub, quello degli shots a un euro e le pareti coperte da strani teli dipinti alla maniera degli impressionisti…come si chiamava lei? Giuseppe disse sicuro Elidia ma in realtà ricordava solo che iniziava con la E e che c’era un ia nel finale.
Si alzarono qualche minuto dopo del previsto. Pagarono, Renato diede due baci di commiato alla Lily, la fedele barista dispensatrice di grandi ma all’apparenza piccoli consigli di vita. Salirono in macchina, Sebastiano azionò il motore, la radio riprese una traccia a metà di un gruppo rock anni ’60 e i tergicristalli cominciarono a muoversi da destra a sinistra. Gracchiavano, la pioggia batteva. “Vai con calma, sì” disse Renato, “…Tanto è domenica”.
Passarono venti minuti, e, sarà stato per i semafori, o per il manto bagnato, per chissà quale strana crepa spaziotemporale, ma erano ben più indietro di quanto pensassero. “Oh, schiaccia quel pedale!”.
“Qua vanno tutti lenti, che cazzo”.
“Per fortuna che è domenica”.
“Rischiamo una scorciatoia?”.
“Se perdo l’aereo sono fottuto!” sottolineò Renato senza bisogno di sottolinearlo.
Arrivarono in ritardo ma non troppo tardi.
Renato, detto Ren, corse fuori, recuperò dal bagagliaio la valigia e salutò tutti come se stesse tornando semplicemente a casa. Si infilò sotto l’immensa tettoia dell’aeroporto e seguì il tragitto di scale mobili fino ai controlli di sicurezza. Poi raggiunse la zona d’imbarco, si sedette e mollò un respiro di riassestamento: anche l’aereo era in ritardo di una mezz’ora. I finestroni fuori lasciavano ammirare i decolli e gli atterraggi sullo sfondo di un grigio infinito. Si guardò attorno, ammirò una famigliola allegra composta da padre, madre e figlio. Il figlio sembrava una sua copia precoce. Il caschetto di capelli era castano e brillante anche senza i raggi del sole a fornire assist, e il naso ad uncino, gli occhi scrutatori dei suoi passi, la voglia di saltare da un posto all’altro. Si sentì strano, un vuoto in mezzo al petto rapì la sua attenzione. Aveva voglia di andare a New York? Ce l’avrebbe avuta domani, scoprendo le vie della metropoli, il suo nuovo ufficio e i colleghi, le magagne per un appartamento in affitto, e dopodomani, quando il lavoro avrebbe già iniziato ad assorbire la concentrazione, e la settimana dopo, certo, quando avrebbe azzardato nuove uscite in compagnia. Nuove conoscenze, nuove ragazze, perché no? …Ma ora? Ne aveva voglia ora? Sbuffò. Strinse la valigia alle sue gambe e guardò la pioggia rimbalzare sui finestroni.
Sebastiano, detto Seba, aveva riaccompagnato a casa Giuseppe e Francesco.Ora la macchina scivolava sulla strada, il buio aveva preso il sopravvento, le luci delle altre macchine e dei lampioni lanciavano segnali di presenza, il gracchio dei tergicristalli lottava contro un nuovo album e delle solite vecchie canzoni. Fermo ad un semaforo, controllò il cellulare. Marta gli aveva mandato una foto di lui che tentava di usare una forbice da scuola elementare per tagliare le pizze; sotto era scritto Qui sembri un rincoglionito proprio. Sorrise, aveva ragione. Gli mandò una linguaccia. Riguardò la foto, di fianco a lui, tutti attorno al tavolo imbandito di confusione, sotto il porticato di legno scuro, c’erano Sebastiano e Giuseppe, Emanuele, Rita e Letizia, poi Renato e Francesco, Marta. Gli prese quello strano vuoto che aveva preso Renato in aeroporto, e che aveva colpito anche Francesco, quando, tornato a casa, si era rimesso a scorrere le foto sulla EOS, e Giuseppe, mentre guardava per la duecentesima volta Scandalo a Philapdelphia nel lettore dvd portatile. Un’incredibile forma di consapevolezza silenziosa, una rivelazione postdatata sull’esistenza della loro felicità, che nessuno aveva annunciato nel momento in cui aveva preso forma. Sebastiano sentì il clacson della macchina dietro, quindi gettò il cellulare sul lato del passeggero e accelerò, tornando a concentrarsi sulla strada.